17 marzo 2022

RECENSIONE AH L' AMORE L' AMORE

AH L' AMORE L' AMORE * Antonio Manzini * Sellerio editore * pagg. 335



 Nell’ultima pagina di Rien ne va plus abbiamo lasciato Rocco Schiavone ferito in un lago di sangue. Ora è in ospedale dopo l’intervento di nefroctomia che ha subito, la stessa operazione che ha portato alla morte uno dei ricoverati del reparto, a quanto pare a causa di un errore di trasfusione. Così costretto all’immobilità, di malumore, Rocco comincia ad interessarsi a quel decesso in sala operatoria che ha tutta l’aria di essere l’ennesimo episodio di malasanità. Ma fa presto a capire che non può trattarsi di un errore umano anche perché si è fatto spiegare bene dal primario Filippo Negri le procedure in casi del genere. Per andare a fondo della questione sguinzaglia dal suo letto tutta la squadra, e segue l’andamento delle indagini, a partire dalle informazioni sul morto, Renato Sirchia, un facoltoso imprenditore di salumi della zona, casa sfarzosa, abitudini da ricco, gran lavoratore. Dietro il lusso però si cela una realtà economica disastrosa, la fabbrica è piena di debiti e salta anche fuori una consistente assicurazione sulla vita. Rocco non riesce a stare a guardare e uscito di nascosto dall’ospedale incontra la moglie e il figlio di Sirchia, Lorenzo, fresco di studi aziendali e con idee di conduzione assai diverse da quelle del padre. Le cose però non sono così semplici come appaiono e Schiavone non si fa incantare dalla soluzione più facile. Attorno a lui, le luci del Natale, i neon del reparto (non si sa quali lo deprimano di più), i panettoncini, unico cibo commestibile, gli infermieri comprensivi, il vicino di letto intollerabile e soprattutto i suoi che vanno e vengono incessantemente, lo coprono nelle sue fughe, lo assecondano e non aspettano altro che il vicequestore ritorni in servizio. Soprattutto Antonio Scipioni, che sta sostituendo Rocco ma che è alle prese con situazioni amorose da commedia degli equivoci, le tre donne con cui ha intrecciato relazioni amorose e che era riuscito a non fare mai incontrare, ora rischiano di ritrovarsi tutte e tre ad Aosta. L’unico a potergli dispensare dei consigli è proprio Schiavone.


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Eravamo rimasti col fiato sospeso alla fine del precedente romanzo. Schiavone era stato colpito al rene durante un conflitto a fuoco e, all'inizio del libro, lo ritroviamo in ospedale a riprendersi dopo una delicata operazione. Il palcoscenico si sposta quindi tra le stanze e i corridoi (anche quelli sotterranei che odorano di muffa). 

Ebbene sì, perché dinanzi ad una morte sospetta che vede coinvolto il dottore che gli ha salvato la vita, Schiavone deve agire. Nessuna inchiesta gli viene ufficialmente assegnata, ma lui non sa stare fermo e non per un senso di giustizia. A lui non piace essere preso in giro. Tutto qui. E se il vicequestore non potrà andare in questura, sarà la questura ad andare da lui.

Le indagini si volgeranno grazie al prezioso ausilio della sua squadra che, tra una mano di poker e un pane da sfornare, tra la gestione di un rapporto a tre e una dichiarazione d'amore che non vuole manifestarsi, eseguirà gli ordini impartiti da Schiavone. 

Il periodo è quello natalizio. Capodanno si avvicina e la solita domanda "Cosa fai l'ultimo dell'anno?" occupa tempi e menti dei vari attori, ma per il vicequestore è uno degli elementi inseriti in quella famosa lista denominata "Rottura dei coglioni".

Manzini non ci risparmia nulla di ciò che ha sempre caratterizzato i precedenti romanzi della serie: ritroviamo l'ironia e il sarcasmo di Rocco che, neanche dinanzi al dolore fisico suo e altrui, risparmia i lavaggi di testa e battute mirate a silenziare parole proferite inutilmente. 

Ritroviamo la sua malinconia travestita da idiosincrasia verso la terra che ormai da anni si vede calpestata dalle sue Clarks.

In questo romanzo più che negli altri ho percepito una preponderanza delle storie personali delle varie pedine che si muovono su una scacchiera di sentimenti oppressi e compressi nell'animo. 

L'indagine, seppur approfondita, ha avuto una valenza minore rispetto allo sviluppo narrativo delle vicende extra lavorative. Non considero questo aspetto un difetto, ma una pausa o una boccata d'aria per sviscerare caratteri e caratteristiche di coloro i quali hanno contribuito alla formazione dell'identità originale di Schiavone. 

E la chiave di lettura di "Ah l' amore l' amore" Schiavone l'affida ancora, in maniera impeccabile,  a Marina, moglie del vicequestore, o meglio al suo spirito, e al suo amore per l'etimologia. Questa volta ci farà conoscere la parola EUPEPTICO, inteso come qualcosa  che libera da un peso. E qui, un po' tutti si libereranno da zavorre che da tempo appesantiscono vite , impedendo loro di volare per andare oltre le nuvole, la pioggia, la neve di Aosta. 

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15 marzo 2022

RECENSIONE CONSOLAZIONE

CONSOLAZIONE * Michele orti Manara * Rizzoli editore * pagg. 272


 



In principio fu il Brivido, un violento terremoto che all'inizio del secolo scorso fece crollare la montagna e risorgere la creatura che vi era stata imprigionata molto tempo prima. Cinquant'anni dopo, il piccolo paese di Roccasa vive ancora nell'ombra di quella maledizione, che scatena terribili pulsioni negli uomini e ha ridotto le donne a una dolente rassegnazione. A combatterla è rimasta la sola stirpe delle sarachìe, che tramandano di madre in figlia il segreto per consolare e guarire le compaesane. La piccola Teresa è una di loro, e presto dovrà abbandonare l'infanzia per abbracciare il suo destino. Michele Orti Manara compone in queste pagine un intreccio avvolgente, in cui convivono religione e folklore, romanzo di formazione e favola dark, echi del passato e temi attuali. Una storia spietata in cui nessuno, proprio nessuno, può dirsi al sicuro.


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Roccasa è un paesino di poche anime dominato dallo sguardo del Monte Severo.

Una comunità chiusa, diffidente, che non ama stringere legami con chi, in quella comunità non vi è nato.

"Roccasa è come racchiusa in un bozzolo, delicato ed elastico insieme e che, tentare di violarlo, da dentro o da fuori non fa differenza, è una pessima idea."

Il monte Severo non è l'unico a dominare il paese. Vi è una maledizione che, come una cupola trasparente chiude Roccasa, isolandola dal resto del mondo e che ha radici in un evento risalente all'inizio del '900: un terremoto che ha fatto crollare la montagna. Gli uomini adulti, all'imbrunire, iniziano a diventare violenti mentre le donne manifestano una supina accettazione.

Attorno a questi eventi, si definisce nel corso del tempo, una figura, la sarachia (termine inventato dall'autore) che mira a sollevare le donne dalle conseguenze delle aggressioni subite. "Una figura a metà strada tra strega e sacerdotessa e risalente a culti che nessuno celebra da mezzo secolo".

Michele Orti Manara ci fa conoscere questo culto presentandoci Nives e Teresa, sua figlia, appartenenti rispettivamente alla terza e quarta generazione di queste donne arrivate a perfezionare la liturgia della "Consolazione" con tentativi consumati nel tempo. 

Se dal punto di vista spaziale la storia si sviluppa in unico luogo, dal punto di vista temporale ci troviamo dinanzi a degli sfasamenti temporali che jirano a far comprendere meglio la natura, le radici della maledizione e dei riti ancestrali posti per arginare i suoi effetti deleteri. 

La penna dell'autore è una di quelle che attira e coinvolge. È una scrittura sensoriale con quell'odore di bruciato, di bosco, che aleggia perennemente nell'aria di Roccasa, ma scorrendo le righe si respira anche paura. Paura di un tempo, di un luogo da cui sembra di non poter uscire più: "A Teresa sembra di vivere in un eterno presente e che la sostanza delle cose non muti mai".

Per quel forte rapporto che lega tra loro gli abitanti di Roccasa il romanzo può essere definito corale: "Sono tutti pezzi di una diga, che serve a tenere a freno qualcosa che altrimenti ci potrebbe distruggere".

Il romanzo è una lotta tra forze contrapposte, religione e folklore, maledizioni da far rimanere sotto terra e desiderio di far emergere la verità con la conquista della libertà. Quest'ultima dicotomia è rappresentata anche da quelli che sono i luoghi dove si raduna la gente di Roccasa: il campanile e il pozzo. 

Due simboli fondamentali nelle vicende del paesino. 

Mi sarebbe piaciuto un finale più sviluppato, mi è sembrato un po' frettoloso,. Avrei apprezzato un approfondimento sulla trasformazione di Teresa.  A parte ciò, il romanzo è consigliato perché con la sua prosa molto olfattiva e concreta allo stesso tempo, legata alla terra, alla natura, all'ambiente, alla storia, al passato, ci troviamo a leggere di temi purtroppo, più attuali che mai. 


01 marzo 2022

RECENSIONE GIUDITTA E IL MONSÙ

 

GIUDITTA E IL MONSÙ * Costanza DiQuattro * Baldini & Castoldi * pagg. 224


Ibla, 1884. A Palazzo Chiaramonte, una notte di maggio porta con sé due nascite anziché una soltanto. Fortunato, abbandonato davanti al portone, e Giuditta, l'ultima fimmina di quattro sorelle. Figlia del marchese Romualdo, tutto silenzi, assenze e donne che non si contano più, e di sua moglie Ottavia, dall'aria patibolare e la flemma altera, è proprio lei a segnare l'inizio di questa storia. Lambendo cortili assolati e stanze in penombra, cucine vissute ed estati indolenti, ricette tramandate e passioni ostinate, il romanzo si spinge fin dove il secolo volge, quando i genitori invecchiano e le picciridde crescono. C'è chi va in sposa a un parente e chi a Gesù Cristo, ma c'è pure chi l'amore, di quello che soffia sui cuori giovani, lo troverà lì dov'è sempre stato: a casa. Dopo Donnafugata, Costanza DiQuattro invita a sfogliare un nuovo album di famiglia, fatto di segreti inconfessabili, redenzioni agrodolci, e tanta, infinita dolcezza.



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Un'altra femmina. La quarta.

Marchese Romualdo ormai vede già il titolo nobiliare passare nelle mani di suo fratello.

Quella stessa notte arriva un maschio, ma abbandonato davanti al portone della villa del marchese il quale non ci pensa un  attimo ad affidarlo a don Nicola, il monsù di casa e sua moglie, donna Marianna.

Il suo nome sarà Fortunato ed è sempre Romualdo a sceglierlo.

La storia si sviluppa su una sola linea spazio temporale, che va da Ibla, quartiere più antico della città di Ragusa a Poggiogrosso dove la famiglia trascorre il periodo estivo, coprendo trent'anni, dalla fine del 1800 al 1915.

L'educazione delle figlie del marchese è affidata al canonico LoPresti il quale individua subito le inclinazioni delle ragazze:

- Amalia, predisposta per le scienze umanistiche;

- Rosalia, portata per la matematica, con un pizzico di pepe nel carattere che la porta a rispondere in maniera pungente a chi la contraddice;

- Aida: amante delle Sacre Scritture e per la quale il canonico prevede una vocazione alla vita religiosa;

- Giuditta: non ama studiare. Appena può si rintana in cucina impressionando per la sua capacità di non turbarsi neanche dinanzi ad un maiale scuoiato. 

Queste indicazioni vengono riportate dal canonico a Oscenza (appellativo dato a persone dotte, sapienti o grandi proprietari terrieri, baroni), ma non dà peso a nessuna di esse. D'altronde il destino di ciascuna figlia è già deciso e niente per il marchese potrà cambiarlo. Lui, per lo più austero, sorprende con quelle piccole pause di serenità che danno luogo a battute inaspettate. 

Così, presi dalla vita che scorre sotto un sole che spacca le pietre e lascia poco respiro e inverni mai rigidi, Giuditta vive una vita parallela, in un mondo solo suo: la cucina. Qui il monsù, "appellativo dato anticamente ai cuochi professionisti, condivide con lei ricette e ingredienti segreti. I suoi occhi sono quelli di un'innamorata, pronta a danzare con ogni ingrediente, a sfiorare quelli più delicati e a manovrare con passione quelli più grezzi. 

Il mondo esterno non esiste. 

Solo lei, l'arte della cucina e Fortunato, destinato a vivere tra i fornelli perché il monsù è don Nicola. La serenità di Giuditta incomincia ad essere scalfita quando si prospetta il matrimonio di Amalia, la sua sicurezza.

"Per l'ennesima volta, dentro quella stanza che le aveva viste crescere mano nella mano, Amalia aveva sollevato Giuditta dalle sue insicurezze, da quella feroce paura che ti assale quando d'un tratto scopri che nulla resta identico a se stesso ma tutto muta in un continuo divenire che smonta i paini e cancella le speranze."

Si riprenderà quando vedrà accendersi la speranza di coltivare il suo amore per la cucina grazie all'incarico di monsù che verrà dato a Fofò, perché il padre, ormai stanco, non ce  la farà più.

Inizia così una condivisione tra colei che i libri  non ama e colui che vuole leggere e studiare.

Quei muri che fino ad allora avevano visto due bambini che coltivavano una passione ed un'amicizia, ora vedono due adulti che hanno occhi che luccicano, mani che si intrecciano mentre impastano. La cucina diventa teatro di "condivisione di sogni e di speranze".

Costanza DiQuattro ci serve questa intimità in un cesto che l'accoglie e l'avvolge in una bambagia di delicatezza. Con la sua carezza l'autrice seduce e coinvolge. 

Le sue descrizioni, dei personaggi e degli ambienti, sono sempre ricche di particolari, ma mai sovrabbondanti, pesanti. Sono leggere, fresche, profumate come un velo di borotalco sulla pelle. La costruzione dei personaggi è completa così da rendere evidenti i ruoli: protagonisti, coprotagonisti e figure secondarie.

L'uso della lingua, con l'espressioni siciliane, il dialetto tipico, non è mai motivo di incomprensione: viene calato all'interno della trama in modo da comprendere con facilità il significato e spingendo alla ricerca e all'approfondimento dei termini tipici. La sua scrittura sensoriale è in grado di far percepire gli odori dei piatti tipici dell'epoca e del luogo. 

È una storia d'amore, priva di elementi leziosi. È un libro delicato, ma potente che porta a riflettere sul senso sul senso del sacrificio per amore di una verità che non è detto sia sempre giusto svelare.

"Ci sono verità, così dolorose nella vita, che sembrano non appartenere al mondo. Verità che farebbero bene a restare celate nel fondo di un cassetto mai aperto, nei meandri di un animo mai lindo. Verità che non possono essere udite perché il loro suono diventa una campana a morte, un verdetto finale, una condanna eterna".


Loredana